La gestione dell’integrazione è una materia complessa che deve essere gestita da professionisti qualificati. Specialmente in ambito sportivo.
Di Marco Marchetti
Gli integratori alimentari, stando alla loro definizione, sono: “…prodotti alimentari destinati ad integrare la comune dieta, e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive…”. Dalla stessa definizione si può comprendere come essi siano prodotti che, pur non potendo vantare proprietà terapeutiche, debbono essere utilizzati esclusivamente in particolari situazioni le quali, sempre citando la loro definizione si riferiscono a “…stati di eventuali carenze o di aumentato fabbisogno…”. Purtroppo la società moderna, nella costante ricerca di uno stato di “supersalute”, ci spinge a ricorrere sempre più spesso all’uso di integratori, senza una reale necessità, specialmente in ambito sportivo. Appare quindi doveroso un piccolo excursus chiarificatore sul corretto uso di integratori alimentari.
Una dieta sana ed equilibrata, che garantisca l’assunzione di tutti i nutrienti nelle quantità necessarie ed adeguate al proprio stato di vita e condizione di salute, rende l’uso di integrazione pressoché superfluo. Gli integratori alimentari, infatti, dovrebbero essere utilizzati assecondando il senso etimologico del loro nome, devono cioè integrare eventuali carenze. Per determinare correttamente l’effettiva carenza, e la conseguente necessità di integrazione, c’è bisogno di rivolgersi ad un professionista esperto e qualificato. In questa ottica, moltissimi sono gli step da compiere, ed al fine di determinare eventuali carenze, è necessario partire dalla valutazione dello stato fisiologico, patologico e nutrizionale di un soggetto. Fondamentale è eseguire un’analisi approfondita della composizione corporea.
La composizione corporea
L’analisi della composizione corporea gioca, come detto, un ruolo fondamentale per determinare eventuali stati carenziali, specialmente in ambito sportivo. Normalmente la valutazione di peso e statura, parametri utili al fine di determinare l’indice di massa corporea, sono il primo step per classificare il paziente. Detto indice, però, presenta vantaggi e limiti. Tra i vantaggi si annovera la semplicità nel reperire le misurazioni, tra i limiti appare importante sottolineare che il B.M.I. ( acronimo inglese che identifica appunto l’indice di massa corporea ) non discrimina ne per sesso, ne per età e tantomeno per composizione corporea. Il B.M.I., infatti, viene individuato attraverso il rapporto tra peso e statura espressa al quadrato e le classi in cui cataloga i soggetti sono funzione di questo rapporto. Più precisamente: soggetti con B.M.I. inferiore a 18.5 sono classificati come sottopeso, soggetti con valori di B.M.I. compresi tra 18.5 e 24.9 come normopeso, soggetti con valori di B.M.I. compresi tra 25 e 29.9 come sovrappeso mentre i soggetti con valori di B.M.I. maggiori di 30 vengono via via catalogati come obesi di grado crescente al crescere del valore dell’indice stesso. Risulta semplice comprendere come questo indice, validissimo all’interno di una popolazione, perda di significato se declinato sul singolo soggetto. Uno sportivo che pratica sport di potenza, come ad esempio un centometrista, è tipicamente caratterizzato da una imponente massa muscolare e potrebbe, quindi, avere un indice di massa corporea tanto elevato da essere classificato tra gli obesi con evidenti incongruenze in termini di apporti nutrizionali. A dispetto del peso, infatti, la differente composizione corporea di uno sprinter o di un obeso determina una richiesta energetica, proteica e di micronutrienti estremamente differente. La stessa definizione di obesità non può prescindere, a nostro avviso, da una attenta valutazione della composizione corporea. Un soggetto obeso, infatti, non è colui che pesa molto, ovvero un soggetto con valori di B.M.I. superiori a 30 ma, più correttamente, è colui che riporta valori percentuali elevati di massa grassa. Un obeso è, cioè, un soggetto grasso, ma non necessariamente pesante. Diversi studi pubblicati illustrano questo concetto e qui, vogliamo riportare a titolo esemplificativo, ma non esaustivo, la sindrome N.W.O. Partendo dalla definizione di obesità che si identifica come “…un eccesso di massa grassa tale da alterare lo stato di salute dell’individuo…” è possibile ragionare sulla composizione corporea al fine di identificare dei fenotipi di obesità che riescano, andando oltre il semplice valore di B.M.I., ad inquadrare un soggetto in modo più compiuto. Un soggetto con peso e statura che lo classificherebbero all’interno della categoria normopeso ( B.M.I. compreso tra 18.5 e 24.9 ) potrebbe essere in realtà già obeso. La quantità di massa grassa che concorre a determinare il suo peso potrebbe, infatti, superare quelli che sono i cut-off prefissati in funzione al sesso ed età, determinando, indipendentemente del peso, una più adeguata condizione di obesità. Soggetti in questione possono essere, come precedentemente accennato, definiti attraverso l’acronimo inglese N.W.O. ossia Normal Weight Obese che intende soggetti obesi ( perché percentualmente la loro massa grassa supera determinati valori ) ma dal peso normale ( poiché il loro peso, se rapportato alla statura, li cataloga come normopeso ). Molto spesso, questi pazienti, sono caratterizzati da quadri clinici riferibili tipicamente all’obesità. Non bisogna infatti dimenticare che il tessuto adiposo è trigger di pressoché tutte le patologie cronico degenerative in funzione, tra l’altro, della sua capacità di comportarsi come un vero e proprio organo endocrino. Tornando alle richieste nutrizionali, risulta a questo punto evidente come un soggetto N.W.O. abbia delle necessità estremamente differenti rispetto ad un soggetto normopeso ma con una massa grassa percentuale all’interno dei valori di riferimento. In particolare, poiché il peso risulta, di fatto, normale, ma allo stesso tempo la massa grassa elevata, è evidente che alcuni soggetti potranno essere caratterizzati anche da una condizione di scarsa massa muscolare che potrà sfociare in sarcopenia. Anche in questo caso, appare del tutto evidente quanto le richieste energetiche, e proteiche in particolare, di due soggetti del medesimo peso e statura ma caratterizzati da percentuali differenti di massa grassa, risultino estremamente differenti, specialmente in ambito sportivo. Alle stesse considerazioni si arriva analizzando la composizione corporea di soggetti sottopeso. All’interno di questo cluster di pazienti, catalogati valutando il solo B.M.I. come sottopeso, possono trovarsi soggetti che, in funzione della l’elevata percentuale di massa grassa che caratterizza la loro composizione corporea, necessitino di dimagrimento a dispetto del peso. Alcuno di questi pazienti possono, a titolo di mero esempio, essere affetti da Lipedema, una particolare condizione patologica in cui si ravvisa una espansione della massa grassa percentuale dalla eziologia ancora incerta. Anche questi pazienti necessitano di apporti energetici e nutrizionali ben calibrati e proporzionati alle loro reali necessità prescindendo dal peso. Scorrendo queste poche righe appare chiaro quanto la valutazione della composizione corporea risulti uno step fondamentale per determinare i fabbisogni energetici e di nutrienti del singolo soggetto. Una volta indagata in modo appropriato la composizione corporea deve essere approfondito lo stato patologico del paziente e, giova ricordare, questo step è di esclusiva competenza medica.
Le analisi ematochimiche
Anche il quadro ematico gioca un ruolo fondamentale nel valutare le necessità nutrizionali e quindi di eventuali integratori. Molto spesso infatti la lettura e l’interpretazione del dato di laboratorio può essere fuorviante. I parametri che vengono identificato come “normali” lo sono, come noto, sulla scorta di studi di popolazione. Ovvero, valutando una fetta di popolazione che può essere considerata “sana”, si identificano i valori ematici che la caratterizzano e si prendono questi come riferimento determinando i cuti-off di “normalità”. Ciò non è sempre corretto, o meglio, il referto di laboratorio deve essere letto alla luce di una ottica più approfondita. Ogni singolo soggetto, infatti, è solo quota parte di una popolazione, e sarà contraddistinto da suoi particolari valori ematici all’interno di quelli, ben più ampi, che sono range di riferimento di una popolazione. Valori ematici che si discostano in modo importante dai valori consueti, pur rimanendo all’interno dei valori di normalità, fanno scattare l’allarme al professionista che sta valutando le analisi. Un valore che si discosta sensibilmente dai valori storici risulta, infatti, non normale per quel paziente in particolare, indipendentemente dal trovarsi, o meno, all’interno dei parametri di normalità riferiti ad una popolazione. È quindi buona norma valutare le analisi non tanto tenendo in considerazione i valori di riferimento ( validi, come dicevamo, per una popolazione ) ma, piuttosto, alla luce dei valori passati risultanti da prelievi effettuati alle medesime condizioni. In buona sostanza, un paziente, per ogni valore analizzato, dovrebbe più correttamente far riferimento ai propri, personali, range minimi e massimi oltreché ai range, ben più ampi, della popolazione di riferimento.
L’integrazione e la dieta
Una volta accertato uno stato carenziale, non è sufficiente integrare il singolo nutriente, ma è indispensabile assumerlo all’interno di un piano alimentare ben definito e strutturato. Ossia la dieta deve essere intesa nel suo complesso perchè tantissime sono le possibili interazioni che potrebbero determinare carenze, e sovradosaggi, specialmente in ambito sportivo. Una carenza di ferro, ad esempio, non può essere risolta con la semplice assunzione di complessi ferrosi. Chiunque abbia assunto integratori a base di ferro sa bene che, dopo le prime compresse, le feci diventano irrimediabilmente più scure, a conferma del fatto che il problema non risiede soltanto nell’intake di ferro ma anche nella sua assimilazione. Molto più utile, una volta riscontrata una carenza, sarebbe indagare le abitudini alimentari del soggetto per valutare un possibile abuso di the, caffè, cacao o cioccolata. Questi alimenti infatti, grazie all’elevata presenza di tannini, hanno la capacità di limitare l’assimilazione intestinale del ferro. Una integrazione di ferro, inoltre, andrebbe sempre accompagnata da un complesso riducente, come l’acido ascorbico ad esempio, per aiutare l’assimilazione lavorando sul numero di ossidazione. Un’atra carenza che in modo semplicistico si tenta di soddisfare con l’uso di integrazione, e talvolta di farmaci, è quella della vitamina D. Aldilà della considerazione che la vitamina D, esattamente come le sue “sorelle” A, E e K, essendo vitamine liposolubili, può dare luogo a fenomeni di accumulo, sembra giusto ricordare che prima di somministrare alte dosi di questa vitamina bisognerebbe indagare la funzionalità epatica e renale. La vitamina D, infatti, assume la sua forma attiva dopo una lunga e complessa serie di passaggi chimici le cui tappe fondamentali sono due distinte idrossilazioni, che avvengono appunto a livello epatico e renale. Somministrare dei precursori o somministrare la forma mono o diidrossilata della vitamina ( giova ricordare che la forma attiva è la1,25 diidrossicolecalciferolo ) è profondamente diverso e deve tener conto dello stato di salute dei due organi coinvolti nel processo di sintesi. A margine di questo non va sottaciuto come la carenza generalizzata di vitamina D, che si riscontra nella popolazione, è imputabile non soltanto ad un suo scarso intake, quanto alla dilagante obesità, intesa nella sua più corretta accezione, ovvero eccesso di massa grassa. La vitamina D, essendo liposolubile, si deposita facilmente nella massa grassa ed un semplice dimagrimento, ovvero la perdita di peso attraverso perdita di massa grassa, la “libera” nel torrente ematico contribuendo, attraverso svariate vie, all’innalzamento dei suoi valori ematici. Molto spesso gli apporti nutrizionali riferiti agli acidi grassi della serie omega tre vengono soddisfatti attraverso l’utilizzo di integratori ma anche questa integrazione non è scevra da problematiche. Di recente L’AIFA ha diramato una nota informativa riguardante proprio l’utilizzo di integratori di esteri etilici degli acidi omega tre raccomandando una assunzione massima giornaliera non superiore ai due grammi. Questa famiglia di acidi grassi essenziali è contraddistinta dalla presenza di doppi legami che contribuiscono, tra l’altro, ad una maggiore fluidità del sangue e modulano lo stato infiammatorio attraverso complicate vie metaboliche. Proprio in funzione della presenza dei doppi legami queste molecole sono particolarmente soggette ad ossidazione e, di conseguenza, un maggior intake di omega tre dovrebbe essere bilanciato da una adeguata assunzione di antiossidanti all’interno di un pattern alimentare più completo. Gli stessi composti antiossidanti, a loro volta, devono essere adeguatamente quantificati nel loro intake poiché alcuni di loro, in funzione della quantità assunta, possono addirittura svolgere una azione pro-ossidante determinando un importante effetto paradosso. L’esempio della vitamina C in questo caso è emblematico. È di tutta evidenza come in ambito sportivo, la gestione della assunzione di integratori ad azione anti-ossidante, assuma un ruolo di primo piano e debba essere valutata con cura.
Concludendo, possiamo affermare che il ricorso all’uso di integratori alimentari, specialmente in ambito sportivo, è una pratica assolutamente sovradimensionata. Viceversa l’integrazione di nutrienti dovrebbe essere effettuata in funzione del riscontro di uno stato carenziale a seguito ad una attenta valutazione dello stato fisiologico, patologico e nutrizionale dell’individuo e non dovrebbe mai essere scissa dalla dieta, con la quale compone di fatto, un unico pattern alimentare.
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/26811617/
https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1804929/2023.11.08_NII_omega-3_IT.pdf: Lo sport, la dieta e l’integrazione necessaria